Il diritto all’identità: dare un nome alle vittime del Mediterraneo

(Crediti immagine: LABANOF – Università degli Studi di Milano)

Il Laboratorio LABANOF, diretto da Cristina Cattaneo, è il Laboratorio di Antropologia e Odontologia Forense dell’Università degli Studi di Milano. Il LABANOF è noto soprattutto perché ha messo la medicina legale dell’Ateneo al servizio di una straordinaria battaglia di civiltà: trattare le vittime dei naufragi nel Mediterraneo come le vittime di altri disastri, prima di tutto restituendo loro una identità.

Si calcola che negli ultimi 15 anni siano circa trentamila le persone disperse in mare nel tentativo di raggiungere l’Italia o altri paesi rivieraschi per fuggire da guerre, persecuzioni e miseria. Metà di queste vittime non è stata identificata. Restituire una identità alle vittime è importante soprattutto a beneficio dei vivi che possano così elaborare il lutto per i loro cari e far valere la dignità di vite finite in modo così intollerabile.

(Crediti immagine: LABANOF – Università degli Studi di Milano)

Cristina Cattaneo, professoressa di antropologia e medicina legale alla Facoltà di Medicina dell’Università degli Studi di Milano, negli ultimi vent’anni insieme ai colleghi e colleghe del laboratorio LABANOF di via Mangiagalli a Milano, si è spesa per far valere questo diritto umano fondamentale, sancito dalla Dichiarazione di Ginevra del 1948, eppure così difficile da attuare: sapere se il proprio caro è morto, quando, dove e in quali condizioni, possibilmente restituendo il corpo a una sepoltura non anonima. Come scrive Cristina Cattaneo «i morti vanno identificati soprattutto per i vivi», per prevenire quell’insidioso limbo della “perdita ambigua” che può condurre chi sopravvive a una mancata elaborazione del lutto e al disagio mentale, che si manifesta spesso con forme depressive e alcolismo.

Oltre ad essere un dovere morale, la restituzione dell’identità risponde anche a necessità pratiche e amministrative stringenti: senza i certificati di morte non è possibile dare inizio all’iter burocratico per effettuare il ricongiungimento di un minore rimasto orfano con il parente in vita attualmente in un altro paese; o una moglie rimasta vedova non può uscire dal paese in assenza del certificato di morte del marito.

L’Università degli Studi di Milano è riuscita a coniugare l’attività didattica e di ricerca con un approccio senza pregiudizi, partendo da una semplice domanda: «È accettabile che per ogni disastro che ha luogo nei paesi più sviluppati, la macchina dei soccorsi e della medicina legale si metta subito in moto per accertare l’identità delle vittime, mentre non faccia lo stesso nel caso dei naufraghi della migrazione?»

Dare un nome alle vittime è stato il cardine dell’attività di LABANOF, da cui sono scaturiti racconti, trasmissioni, proposte di legge, ma soprattutto un mutamento dell’atteggiamento generale nei confronti di questi morti dimenticati.

Attivo dal 1995, il Laboratorio di Antropologia e Odontologia Forense dell’Università degli Studi di Milano si è sempre occupato, fra le altre cose, di restituire un’identità ai cadaveri senza nome, anche prima dell’emergenza migranti. Si contano a decine, soprattutto fra i reietti e dimenticati come i senza tetto, le prostitute, gli anziani abbandonati.

L’impegno del LABANOF per restituire l’identità ai morti dimenticati parte a fine secolo scorso, e attraverso una costante azione di sensibilizzazione, col supporto dell’associazione Penelope e di trasmissioni come “Chi l’ha visto”, conduce il laboratorio della Statale anche a interrogazioni parlamentari che portarono nel 2007 alla istituzione dell’Ufficio del Commissario straordinario del governo per le persone scomparse e la contestuale creazione della Banca Dati Nazionale Ricerca Scomparsi (RiSc). Unico ente del suo genere in Europa, anni dopo l’ufficio governativo avrà un ruolo fondamentale nell’accurato lavoro di ricostruzione dell’identità dei corpi rinvenuti nei naufragi nel Mediterraneo.

(Crediti immagine: LABANOF – Università degli Studi di Milano)

Il naufragio avvenuto al largo delle acque di Lampedusa il 3 ottobre 2013, nel quale hanno perso la vita più di 387 migranti di prevalente origine eritrea, ha costituito un caso senza precedenti in Italia, e ha rappresentato una sorta di spartiacque nell’approccio alla problematica dei cadaveri non identificati. Da quell’anno, il Laboratorio dell’Università ha lavorato insieme alla Croce Rossa Internazionale per proporre migliorie da apportare in ogni paese all’analisi forense e alla documentazione e identificazione dei migranti morti, a cui ha fatto seguito la raccomandazione del Consiglio d’Europa ai paesi membri per allestire un sistema di raccolta dei dati sulle vittime.

Un altro caso che ha avuto grande risonanza è stato quello del “Barcone”, un peschereccio egiziano stipato all’inverosimile, quasi mille migranti di diversa provenienza, naufragato il 18 aprile 2015 in acque internazionali tra la Libia e l’Italia. Chiamati dalla Procura della Repubblica di Catania, i tecnici del LABANOF hanno orchestrato insieme ad altre università, i Vigili del Fuoco e le Polizie scientifiche di diverse città il più grande lavoro di medicina legale mai svolto su naufraghi migranti. 

Il LABANOF si è impegnato anche in campagne di divulgazione e sensibilizzazione verso il pubblico e i decisori sul diritto dei familiari di poter identificare i propri cari scomparsi, e ha fatto uscire questa materia dalle mura universitarie raccontando, attraverso libri, podcast e trasmissioni televisive e radiofoniche, chi sono queste vittime, come muoiono e da cosa fuggono. Il progetto ha richiamato l’interesse anche di diversi documentaristi e registi a livello internazionale, che hanno avviato progetti con la realizzazione di documentari, film e spettacoli teatrali.

Il libro Naufraghi senza volto. Dare un nome alle vittime del Mediterraneo scritto da Cristina Cattaneo e pubblicato nel 2018 ha avuto grande risonanza ed è stato l’occasione per moltiplicare gli appuntamenti pubblici di presentazione (in tv, radio, festival, social) e audizioni in Parlamento.

Gli effetti di queste azioni di disseminazione sono stati molteplici. A livello internazionale il dibattito ha raggiunto in modo massivo i media, che hanno indicato a modello i protocolli messi a punto dal LABANOF, di cui si è auspicata l’applicazione anche in altri contesti (per esempio negli eccidi in Siria). Ma il risultato più importante di questa attività di sensibilizzazione è stato che i parenti delle vittime hanno potuto conoscere l’attività del Laboratorio e quindi contattare i ricercatori per ricevere notizie dei propri cari scomparsi, soprattutto in relazione al naufragio.


La restituzione delle identità ai corpi senza nome è solo una delle attività del LABANOF, che fa parte dell’Istituto di Medicina Legale, all’interno del Dipartimento di Scienze Biomediche per la Salute. L’attitudine a raccontare ciò che si fa all’Istituto di Medicina legale di via Mangiagalli 37 ha preso forma recentemente nel MUSA (Museo universitario delle scienze antropologiche, mediche forensi per i diritti umani), situato accanto all’Istituto, dove emergono anche gli altri aspetti dell’attività scientifica del laboratorio.

(Crediti immagine: LABANOF – Università degli Studi di Milano)

Solo al LABANOF si trovano circa diecimila scheletri di tutte le epoche utilizzati per scopi di didattica e ricerca, e costituiscono la Collezione antropologica LABANOF (CAL), una delle più grandi al mondo, istituita dall’Università degli Studi di Milano nel 2017 e riconosciuta come collezione museale da Regione Lombardia nel 2018.

La medicina legale ha il compito di scoprire perché si muore o perché si viene uccisi. Si esercita sui morti ma anche sui vivi, per sbrogliare casi di maltrattamenti, torture e stupro trattati ad esempio dal centro antiviolenza della Clinica Mangiagalli di Milano.

Il Laboratorio è particolarmente attivo anche sulla valutazione dell’età dei minori stranieri non accompagnati e la valutazione dei segni di tortura nei migranti richiedenti asilo, in collaborazione con il Comune, la Prefettura e le procure di Milano.

Se vuoi saperne di più sul LABANOF e sulla sua attività puoi visitare il sito e leggere il capitolo “Il diritto all’identità: dare un nome alle vittime del Mediterraneo”, nel volume Sostenibilità, diritti, innovazione sociale, a cura di Luca Carra, Natalia Milazzo, Sergio Cima, Massimo Bianchi e Marco Mori, Milano University Press, 2022. Disponibile gratuitamente sul sito di University Press